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“Italiani untori”, quando lo stigma colpisce anche noi

ASSOCIATED PRESS

All’inizio dell’emergenza Coronavirus - o Covid-19 - la comunità cinese e in generale chiunque avesse tratti asiatici era nell’occhio del mirino. Dopo qualche giorno, in Italia, si è levata la voce contro i migranti con il solito refrain del “quelli ci portano le malattie: non li vogliamo!”. E ora, ebbene sì cari concittadini sempre pronti a puntare il dito contro qualcuno, lo stigma colpisce gli italiani. A Roma si direbbe “a chi tocca nun se ‘ngrugna”, ma invece c’è proprio tanto lavoro da fare, a casa nostra come nel resto del mondo.

E’ interessante notare come stigma e discriminazione non vengano sentiti come un problema fino a quando “l’altro”, “l’untore”, “il portatore di malattie” non divento io stesso. Se gli italiani che stavano andando in vacanza alle Mauritius si sono sentiti “trattati come un pacco”, pensate un po’ come si devono essere sentiti o si debbano sentire oggi quegli esseri umani che troppe volte vengono rimpallati da un porto all’altro, dopo aver rischiato la propria vita in mezzo al mar Mediterraneo, di certo non per una vacanza a cinque stelle. Più di 20 paesi impongono restrizioni per viaggiatori italiani, turisti nostrani vengono additati come untori, cresce la fobia dell’italiano all’estero: non vi ricorda nulla di quello che è successo da noi nelle ultime settimane e mesi nei confronti di alcune comunità di stranieri?

L’emergenza Coronavirus è evidentemente complessa e molto seria. Le misure di contenimento e di difesa della salute pubblica devono essere rispettate e seguite. Su questo non c’è dubbio alcuno. Chissà che tutto quello che stiamo vivendo oggi sulla nostra pelle non possa essere d’insegnamento anche per chi dà la colpa di tutti i mali a quelli che non siamo noi, in diverse categorie utilizzabili tanto al chilo: i migranti, i cinesi, i tossicodipendenti, i senza fissa dimora e si potrebbe continuare a lungo.

Lo stigma, lo stiamo ripetendo da giorni e continueremo a farlo, è un problema sociale, ma anche legato alla salute. Discriminare le persone, infatti, può portare all’isolamento di interi gruppi sociali e puo’ portare le persone a nascondere i sintomi e a non ricorrere alle necessarie cure mediche per paura dello stigma. La discriminazione, quindi, colpisce il nostro tessuto sociale, lo indebolisce e rafforza il virus.

Sperando di debellare il prima possibile il Coronavirus, c’è bisogno di un atto di responsabilità da parte di tutti noi e forse questi giorni li ricorderemo come una lezione per il futuro. C’è bisogno di tornare in fretta al buon senso, alle regole di base del vivere comune, alla gentilezza. Questa emergenza ci sta dando lezioni, che forse stavamo perdendo, di come vivere correttamente nella propria comunità: lavarsi le mani frequentemente, non mettersi le mani nel naso o in bocca, aiutare il vicino di casa, avere un occhio di riguardo per le persone anziane, ricreare la comunità, ritrovarsi in famiglia per creare un piccolo piano di emergenza, ritornare alle buone maniere.

Ho letto sui social battute di dubbio gusto a sfondo sessuale, che però raccontavano una grande verità: mentre supermercati e farmacie vengono assaltati per comprare liquidi disinfettanti, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili continua a non essere una priorità nella nostra società. Lo dicevo prima, c’è tanto da fare, ma questa può essere una grande opportunità per rivedere le nostre priorità, parlare di più, far comprendere a tutti quanto la salute pubblica si basa anche sulla responsabilità di ognuno di noi.

Insieme possiamo fermare il Coronavirus. La responsabilità a livello individuale e comunitario è fondamentale in questo momento. Come la responsabilità morale di informarsi correttamente, seguire le indicazioni delle autorità sanitarie, delle organizzazioni come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Ministero della Salute o la Croce Rossa e contrastare notizie false, discriminazioni, leggende metropolitane. E mentre tutti auspichiamo un vaccino, speriamo di non vedere antivax alle porte.

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